LA MIA ARTE MESSA A NUDO A colloquio con l’artista Roberto PeriniPaolo TomioQuando e perché hai cominciato a interessarti all’arte?

Ho ancora dei nitidi ricordi di quando bambino passavo delle giornate nella casa dei miei nonni paterni dove si respirava ancora l’atmosfera mitteleuropea di fine Ottocento e primo Novecento: i quadri, le stampe alle pareti mi trascinavano in un mondo fantastico e senza tempo. Poi, durante le scuole elementari, di fondamentale importanza sono stati i contatti con maestri che erano amanti della storia e con artisti.
La casa-studio nell’edificio scolastico del paesino di Serso occupata dall’archeologo Renato Perini mio insegnante mi affascinava: la porta d’entrata era dirimpetto a quella della mia classe, quando mi era concesso d’entrare potevo vedere le sue sculture e i suoi disegni che si mescolavano ai reperti archeologici del periodo retico che stava studiando. Mi suggestionava anche lo studio fotografico dello zio Erardo Paoli: nella camera oscura le immagini si manifestavano dal nulla e i volti dei perginesi mi guardavano nel liquido movimento degli sviluppi.
Nella mia famiglia quasi tutti disegnavano o fotografavano ed io ero attratto dalle immagini e dai loro fautori, cercavo di copiarle aiutato dall’abile mano di mia madre che aveva avuto come professore Camillo Rasmo.
L’iscrizione all’Istituto Statale d’Arte di Trento, con il preventivo colloquio interrogatorio del preside Bruno Colorio, diede finalmente concretezza alle mie aspirazioni.

 

Quali sono state le correnti artistiche e gli artisti che più ti hanno influenzato?

Durante gli anni di scuola elementare e media l’arte antica, poi all’Istituto d’Arte le Avanguardie Artistiche di fine Ottocento e primi Novecento.
Agli inizi degli anni Settanta avevo una casa-studio e lì un gruppo di giovani artisti si incontrava per discutere, dipingere e disegnare. Erano giornate intense trascorse ad indagare i vari movimenti, a perlustrare teorie e aspirazioni: una febbre di conoscenza alimentata da poesia, letteratura e musica che sfociava in opere grafiche e pittoriche.
Di quell’epoca romantica conservo ancora taccuini fitti di annotazioni e schizzi. In quel periodo tutto aveva un senso, io ero attratto in particolare dai surrealisti e post surrealisti come Max Ernst, Richard Oelze, Silbermnn, lam, Matta, ma amavo anche Pierre Alechinshy, Dubuffet e Sutherland. Anche alcuni Italiani erano presenti nelle nostre discussioni fra cui Afro, Zigaina e Perilli.
Altri giorni emergevano i grandi nomi della Secessione Austriaca e dell’Espressionismo tedesco.

 

Nel corso della tua carriera, hai conosciuto artisti locali o nazionali?

Ho conosciuto molti artisti alcuni dei quali fondamentali per la mia evoluzione artistica: ricordo le lezioni private e gratuite di Remo Wolf, l’appoggio ed i consigli di Ivo Fruet, di Andrea Cappelletti di Civezzano e di Bruno Degasperi, i dialoghi sulla letteratura e sulla poesia francese con Katia Pustilnikov e Paolo De Carli, i viaggi a Roma con Giancarlo Vitturini, le discussioni sull’arte con Andreani, Winkler e Martino Demetz.
Sicuramente ne dimentico molti che sono stati miei insegnanti o che hanno lavorato con me.
Con artisti nazionali e internazionali ho avuto solo brevi incontri nei periodi dove vivevo a Roma, Bologna e Verona, ma non sono stati fondamentali per il mio sviluppo.

 

Quando hai cominciato a sviluppare l’interesse per il tuo tipo di linguaggio?

Verso il 1972, quando ho sentito che i miei pensieri e i disegni che facevo seguivano una traiettoria condivisa con altri artisti internazionali, quando il fare arte era un tutt’uno con il mio sentire più profondo. Non mi sono mai posto il problema dei passaggi obbligati dal figurativo all’astratto, all’informale ecc, per me non hanno senso se non quello storico artistico. Non mi sono mai creato barriere da superare in nome della modernità o del mercato. Il mio linguaggio è un complesso alfabeto figurativo e emozionale che si continua ad evolvere e sviluppare sedimentando immagini e parole.

 

Come definiresti il tuo stile? Quali sono, secondo te, le caratteristiche che ti rendono riconoscibile?

La mia natura di uomo schivo e meditativo, poco incline all’auto promozione ha fatto sì che abbia sviluppato un percorso molto personale, sommerso, nettamente difforme dalle ricerche di altri artisti trentini.
Nei miei lavori si possono trovare le tracce indelebili di maestri lontani e vicini, l’incisivo segno espressionista, la gentile pennellata cinese, le atmosfere surreali e fantastiche.
Ma tutto questo sovrapporsi di linee, colori e parole si rapprende nell’inesauribile germinazione della natura e del suo misterioso impulso primordiale. Un tempo mi definivo l’uomo mimetico, un essere camaleontico che riflette e si veste di emozioni sempre diverse, che non appare mai ma che è presente in altre forme e atmosfere. Certo questa mia produzione artistica è poco codificabile ed è forse questa caratteristica che la renderà riconoscibile.

 

Oggi, cosa ti interessa e cosa non ti piace dell’arte contemporanea?

Ciò che non mi piace è la dimensione commerciale, dove il valore non è più legato alla qualità dell’opera e al messaggio che trasmette, ma al suo aspetto di prodotto mercantile. Molti galleristi, critici e direttori di musei sponsorizzano l’arte come una merce posta in vendita sugli scaffali immaginari di un mercato globalizzato. In maniera minore questo accadeva anche in passato ed è per questo che emergono ancora figure sconosciute oppure decadono artisti un tempo acclamati. Rimpiango i critici che non si facevano pagare ma che chiamavano l’artista e scrivevano sulla sua produzione per stima e interesse (io ne conosco ancora qualcuno), i galleristi sinceri e disinteressati, i Musei che scoprivano i più nascosti talenti.
Ora si può diventare in poco tempo artisti stimati pagando critici e galleristi. Io conosco pittori privi di qualità acclamati ed altri di talento totalmente dimenticati.
Mi destano invece interesse le ricerche non collegate a mode o a diktat di qualche illustre critico. Non ho pregiudizi di alcun tipo: mi interessano di più i visionari illustratori del fantastico e della fantascienza, o qualche sconosciuto artefice di culture a noi lontane, ma anche i graffitisti metropolitani, piuttosto che alcuni minimalisti o astrattisti dell’ultima ora, o quei fautori di improbabili installazioni che tutti dovrebbero capire anche se non c’è nulla da capire.

 

In tutte le tue opere la struttura compositiva è composta da segno su cui, poi, intervieni con il colore. Cosa rappresentano per te il segno, la forma e il colore?

Quando dipingo ho bisogno di tracciare una via immaginaria per passare in un’altra dimensione, devo iniziare una progressiva mutazione, una veloce metamorfosi per trasformarmi in un altro uomo. Devo eccitare la mia sensibilità per saper vedere e sentire le forme che emergono da quel lontano e ancora inesplorato mondo che è dentro di me. Allora i primi segni sono come parole, ideogrammi che aprono un nuovo racconto una nuova visione, molte volte chiara e vivida, altre appena percepibile, da costruire lentamente con l’ansia di perderla. Il disegno tracciato con qualsiasi mezzo – matite, carboni, penne d’oca, bastoncini, pennelli – è il mio mezzo prediletto, la chiave per il passaggio, il colore la linfa che intensifica le emozioni.
I miei procedimenti sono antichi, come quelli di un pittore giapponese o tedesco del Trecento, cambia solo quello che devo dire: antiche sono le parole, gli sguardi, i sentimenti, ma questi sono ancora usati e nessuno potrebbe privarsene.

Il tuo lavoro ai Beni culturali ti ha influenzato nella tua visione artistica?

Prima del lavoro in Soprintendenza ho avuto per una decina d’anni una società che si occupava di conservazione e restauro. Con i miei colleghi Lucio Ferrai e Carlo Emer ho restaurato numerose opere artistiche anche fuori dal Trentino; questo è stato un periodo difficile dove il lavoro occupava quasi tutte le giornate dell’anno, una scelta gravosa per uno che voleva fare l’artista a tempo pieno. Nel 1991, vincendo il concorso, sono stato assunto dalla P.A.T. con l’incarico di ricostituire il laboratorio di restauro allora in Torre Vanga a Trento e di seguire i numerosi restauri che si facevano in Trentino. Allora eravamo in pochi ma tutti appassionati e consapevoli della responsabilità che ci era data. In questi anni ho seguito il restauro di migliaia di opere e ne ho restaurate centinaia, ognuna diversa ed interessante, talvolta legata ad un artista, altre volte frutto di mani anonime. Ho studiato le forme artistiche più disparate, le tecniche esecutive antiche, moderne e contemporanee ed i nuovi metodi per il loro recupero. Ho indagato l’operato di molti maestri cercando di capire, oltre alla materialità delle loro opere, le trame della loro vita. Questo amore per le opere altrui mi ha portato, assieme alla mia compagna Marta, ad essere un instancabile collezionista. Ancora adesso il mio lavoro mi occupa gran parte della giornata, ma ho sempre la notte ed i giorni liberi per produrre disegni e dipinti.
Devo dire che questo lavoro non ha influenzato il mio percorso artistico, ma invece mi ha permesso di capire quanto ci sia di autentico e vero nella produzione di tanti artefici dell’arte e quanto invece di mediocre e falso in altri.

 

Come ti sembra il panorama dei pittori trentini d’oggi? Cosa manca al Trentino per poter essere più presente sul mercato esterno?

Personalmente non mi interessa il mercato, mi interessa l’arte e la sua diffusione, ma capisco che per pittori che vivono del proprio operato sia importante. I pittori devono dipingere, gli scultori scolpire, insomma devono produrre opere e non dover fare gli sponsor di se stessi, o magari umiliarsi di fronte a galleristi, critici e direttori di museo per avere un po’ d’attenzione. L’arte viene fatta dagli artisti e questi devono essere ascoltati. Devo purtroppo riconoscere che nei periodi più bui della nostra storia c’era più attenzione rispetto ad ora. In Trentino si danno in pasto alla popolazione artisti internazionali anche di dubbio valore e si dimenticano maestri locali con produzioni molto interessanti (a parte i soliti nomi). Il Mart dovrebbe tra i suoi compiti cercare e promuovere gli artisti trentini, anche quelli che hanno sempre operato senza ambizioni mercantili o di visibilità: il patrimonio di conoscenze si costruisce attraverso la ricerca diretta, alle fonti e non solo per mezzo dei media. Molti sono i pittori che stimo sia giovani che della mia epoca, tra questi ultimi alcuni con i quali ho condiviso momenti creativi e di vita, che per motivi diversi sono poco conosciuti come Giordano Chini, Piermario Dorigatti, Roberto Marzadro e Giovanni Bortolini, altri sono noti, come Paolo Tait e Pierluigi Rocca. Certamente dovrei fare molti nomi ancora.

 

Qual è la tecnica artistica che utilizzi principalmente nella tua attività?

I procedimenti su carta, un supporto che mi ha sempre affascinato per la sua versatilità, mutevolezza e leggerezza, per la sua storia che si perde nel tempo.
Poi tutto quello che traccia segni, che incide e comprime, il carbone la grafite, la penna d’oca ed i pennelli di tutte le forme e tradizioni. Nel colore, cerco le trasparenze dell’acquerello, la matericità della tempera, le gradualità tonali delle terre e dei pigmenti in polvere che mescolo al momento. Uso anche gli olii ed i pastelli, in pratica tutto quello che può aiutarmi a definire un’opera nei tempi stretti del mio stato di sensibilità. Tutto è fatto senza l’aiuto di strumenti tecnici, tutto deve nascere dalle mie mani.

 

Ti senti più disegnatore o più pittore? E qual è la differenza tra le due modalità espressive?

Non lo so, dipende dal momento, da quello che voglio dire, generalmente le cose si compenetrano: alcuni dipinti celano disegni, in altri è il segno che copre, imprime tensioni ed evidenzia forme. Ho passato mesi disegnando con la semplice grafite senza toccare un colore, totalmente compenetrato in quell’intrico di linee che definiva in modo chiaro e vibrante i miei pensieri. Il segno è anche scrittura, parola incisa, come nei miei libretti, compagni di tutti i giorni che sono il deposito, la memoria di fugaci visioni e pensieri.
Da giovane amavo gli antichi maestri dell’incisione, che poi ho studiato in modo approfondito, e mi meravigliavo che un piccolo foglio potesse competere e superare per forza e qualità grandi tele e imponenti sculture.
Hai sperimentato anche altre tecniche artistiche?

Sì, ho eseguito incisioni su metallo, linoleografie, serigrafie, ho studiato scultura con Martino Demetz, dipinto olii e acrilici su tela e tavola, anche di grandi dimensioni.
Purtroppo mi manca il tempo; essere artista a tempo pieno era il mio scopo di vita, in quel caso avrei fatto molto di più.

 

Ritieni di rappresentare nelle tue tele concetti, emozioni o cos’altro? Sei interessato ad un “messaggio” nell’opera?

I miei sono messaggi complessi e mutevoli, che si modificano di giorno in giorno. Io non sono l’uomo di ieri e non quello di domani, basta un libro, un frammento di natura, la disperazione di qualcuno, la felicità di una nuova primavera per cambiare il mio modo di sentire. Sono mondi paralleli, talvolta inquietanti in altri casi felici e variopinti. Possono essere relitti calcificati di una guerra insensata, apparizioni di divinità sconosciute, metamorfosi e rigenerazioni di una natura sacrificata, bestiari fantastici, barriere organiche inaccessibili, momenti di felice leggerezza, racconti, emozioni e sensazioni che tentano di giustificare un’esistenza priva di certezze.
Nei miei lavori posso essere un perlustratore dell’irrazionale, un generatore di vite immaginarie, mentre nel lavoro devo essere concreto e dare messaggi chiari per migliorare la nostra società.

 

Qual è la funzione delle scritte più o meno lunghe che inserisci nei tuoi dipinti?

Mi piace scrivere a mano: è come disegnare, i pensieri si concretizzano in segni che seguono linee rette, curve, spezzate, un’architettura del pensiero dichiarato.
Per chi guarda, la parola può essere la chiave di porte inaccessibili: una frase può essere rivelatrice di una sensazione, di un presagio o di un pensiero sfuggente, un modo per accelerare il passaggio alla visione. Alle volte il titolo è una dedica a quel piccolo mondo da poco creato. Io le uso come forme evocatrici di qualcosa in divenire, talora riescono illeggibili trasformate in puro segno o nascoste sotto strati di colore: possono sovrapporsi fino a diventare vibrazione indecifrabile, deposito inaccessibile di pensiero.

 

Segui la “politica culturale” trentina: pensi che si possa fare di più o meglio per il settore artistico?

Per lavoro, ma anche in associazioni culturali. In questi ultimi decenni si è fatto molto e in alcuni settori si è raggiunta l’eccellenza. Certo l’attuale crisi nazionale ha comportato un considerevole taglio ai finanziamenti per la cultura. Grandi strutture come il Mart e il Muse hanno bisogno di ingenti investimenti per sopravvivere e questo a discapito di altri settori importanti. Per fare cultura però non sono necessari grandi contenitori, ne’ enormi finanziamenti (le associazioni lo sanno bene).
Manca l’interesse per l’arte trentina e dei Trentini: si spendono capitali per eventi e mostre su artisti nazionali ed internazionali, ma non si costruisce un sito dal costo di poche migliaia di euro dove pubblicare opere e notizie sugli artisti operanti in provincia.
L’ideale sarebbe un’ esposizione in continuo divenire dove la gente potrebbe vedere l’evoluzione degli artisti più conosciuti e conoscerne di nuovi, un continuo dibattito che forse farebbe bene anche agli operatori.

 

Cos’è la bellezza? E’ un valore che ricerchi o è subordinato ad altri valori?
La bellezza non è un criterio uguale per tutti. In molte culture i parametri sono nettamente diversi. Anche nell’arte antica il concetto di bello per ogni periodo storico appare diverso. Per lo scultore romanico i parametri non erano certo quelli di Michelangelo o Canova. Il bello è variabile ed è legato al significato dell’opera, al simbologia e alla tradizione. Altra cosa è la qualità dell’opera, la capacità dell’artefice di trasmettere un messaggio dipingendo, scolpendo, disegnando.

 

E, per finire, cosa è per te l’arte? E chi è l’artista?

È una cosa indefinibile, l’emanazione materiale o immateriale di un bisogno interiore irrefrenabile di rendere tangibile un’emozione, un’idea.
Forse un istinto primordiale, modificato dalla consapevolezza dell’uomo di esistere e la coscienza di essere effimeri.
L’artista può essere anche un costruttore di cose belle che rendono piacevole o danno significato alla vita. Un tessitore di tappeti afgano è lo specchio della sua cultura: i suoi segni, le forme ed i colori sono la perpetuazione di un messaggio che diventa arte.
Io invece sono europeo, melanconico messaggero di un tempo che passa, che costruisce per non morire. Mi circondo di opere fatte da altri artisti di tutti i tempi e in esse vedo anche la loro storia; sono oggetti familiari che mi parlano ogni giorno in modo diverso, anche per questo dipingo.