Nel 2010, ero rimasto colpito a una mostra di Renato Reigl, che allora non conoscevo, da un suo quadro, “Ricordo due Glenda” (vedi a pag.14), un autoritratto con un delizioso cagnetto rosso allegramente posato sulla spalla del suo padrone. Mi era piaciuto perché aver raffigurato il suo cane (in realtà, un Basset hound!) denotava una sensibilità e una creatività libere da schemi. Ancora più forte appariva il contrasto con il resto del dipinto, tutto giocato sui toni grigi e neri e la figura dell’autore eseguita in modo primitivo con un impasto rude, materico, che ricordava l’Art brut di Dubuffet. Ho avuto la conferma dell’impressione provata la prima volta vedendo altri suoi lavori, in particolare gli autoritratti in cui il segno incerto e indistinto racconta un mondo visto attraverso una personalità complessa e combattuta, quasi un non voler vedersi con chiarezza oppure, viceversa, di vedersi esattamente così. Anche se Reigl non è digiuno di arte, la sua caratteristica precipua sta proprio nel cercare solo in sé stesso le ragioni, i soggetti e i modi della sua arte senza sottostare a convenzioni. Renato è un pittore che ha lavorato moltissimo nel chiuso del suo studio-avvolto ma, coerentemente con il carattere schivo e laconico, ha fatto poco per farsi conoscere. Eppure, la sua pittura essenziale, diretta, rude, possiede una forza spesso altamente drammatica che mette a nudo una vena poetica sobria e intimista che dialoga con un apparente pessimismo di fondo. I suoi dipinti non sono certo facili, tutt’altro: sono spesso duri, inquietanti perché comunicano una fatica di vivere ma anche una dolcezza triste dovuta a una sensibilità esasperata, forse legata al proprio vissuto. Ma è proprio da questo sforzo nel cercare di esprimere i propri sentimenti che, come avviene nei veri artisti, come una catarsi, si manifesta nella sua pittura il suo vero Io.