Giovanissimo, il gardenese Bruno Walpoth apprende la tecnica della scultura tradizionale presso un
laboratorio di Ortisei, poi amplia i suoi orizzonti andando a studiare all’Accademia d’arte di Monaco.
La sua modellazione rimane debitrice del mestiere imparato in bottega ma la crescita artistica
avviene nel momento in cui si emancipa dai canoni estetici imposti dal conformismo che privilegia
il verismo di maniera e la perfezione esecutiva e intraprende un percorso di revisione critica per
approcciarsi in modo non convenzionale alla figura umana che rimane sempre al centro dei suoi interessi.
Affronta ogni nuova scultura dopo un lungo studio, quindi lavora con la presenza del modello
per desumere proporzioni e rapporti ma, rifiutando una verosimiglianza scontata, ne trasforma
liberamente la fisionomia concentrando l’attenzione sulla componente psicologica. Ama catturare
i momenti di introspezione in cui i suoi soggetti, persi nei loro pensieri e sospesi in una dimensione
spazio-temporale inafferrabile, si esprimono attraverso il linguaggio del corpo inconscio.
Anche se è in grado di raggiungere livelli di eccellenza con materiali come il bronzo, Walpoth è
innanzitutto un Maestro del legno: la sgorbia nelle sue mani è come il pennello del pittore, definisce
il soggetto con tratti sapienti fermando nella materia i moti dell’animo che vuole raffigurare. Il
trattamento superficiale del legno, lasciato grezzo e ‘non finito’, contribuisce a caricare i suoi artefatti
di una potenza espressiva primitiva così che le immagini, altrimenti iperrealistiche, emanano
un’inquietudine a cui non è estranea la memoria di antichi riti esoterici o pagani. Figure umane
intere, generalmente nude o poco coperte, busti, teste, tutte rigorosamente in scala reale, vanno
ad arricchire un Olimpo di personaggi ognuno con una propria personalità peculiare che destano
meraviglia in chi vi si accosta e ne tocca con mano l’anatomia. Bruno lascia al legno il suo aspetto naturale
– fessurazioni comprese – mantenendo al contempo anche le tracce del fondo bianco usato in
fase di sbozzatura per sottolineare l’intervento manuale e il grado di compiutezza della lavorazione,
intervenendo alla fine con pochi colori tenui e delicati come acquerelli. In particolare, l’interazione
con l’osservatore è affidata agli occhi (eseguiti a pennello) e allo sguardo, abbassato o distolto, i
quali creano il pathos che comunica anche i pensieri più reconditi.