Le raffinate composizioni di Elisabetta Vazzoler posseggono la capacità di coinvolgere l’osservatore e invitarlo a ricercarne i significati simbolici nascosti. I soggetti delle sue tele sono nella loro quasi totalità ambienti interni deserti in cui gli unici segni di una presenza umana sono i pochi mobili rimasti. Non appare mai alcun essere vivente, né persone, né animali, nè piante; i locali disabitati, forse abbandonati, delimitati da spoglie pareti impersonali, hanno ospitato qualcuno che non ha lasciato traccia del suo passaggio. Solo il mobilio borghese e datato, disposto in modo ordinatamente rassicurante all’interno di atmosfere rarefatte e innaturali in cui il tempo sembra essersi fermato e lo spazio congelato, racconta di relazioni scomparse.
Ad accrescere il senso di vuoto e desolazione esistenziale di questi “paesaggi dell’anima”, contribuisce l’uso sapiente e “scenografico” delle ombre e delle luci, in parte naturali e in parte filtrate attraverso colori improbabili palesemente artificiali, rossi, viola, blu, verdi, che ne enfatizzano la connotazione metafisica. L’uso di queste tonalità inverosimili crea delle composizioni inquietanti che esaltano il senso di teatralità dell’ambientazione trasportandoci in una dimensione fantastica e onirica che potrebbe essere un sogno oppure un incubo.
Concorre alla generale sensazione di straniamento anche la tecnica della sfocatura dei contorni che rende lo spazio e gli oggetti contenuti impalpabili e sostanzialmente privi di materialità: uno spazio-tempo sospeso che rimanda a delle storie senza protagonisti a cui ciascuno attribuisce un significato sulla base della propria sensibilità. L’universo immaginifico surreale di Elisabetta, apparentemente così vero e credibile, ci parla dell’assenza, della difficoltà delle relazioni umane, mentre l’indefinitezza della percezione allude all’ambiguità della realtà intorno a noi, mai chiara e definita, ma inesorabilmente vaga e mutevole.