Dalle appassionate risposte di Piermario Dorigatti si ricava l’impressione di un personaggio intimamente convinto dell’impegno culturale, mentale ed esistenziale che l’arte richiede. Si percepisce, infatti, un’adesione totale alla “missione” dell’artista il quale, più che agire, sembra “agito” dalla pittura e, in una sorta di trance, «si inabissa e recupera nel suo cadere alcuni elementi… che riporta alla luce». Questa “catarsi” avviene tramite il “disegno automatico” di matrice surrealista che inizialmente copre la tela di segni liberi e casuali slegati da un controllo razionale; è poi «la pittura a decidere il tutto nel suo farsi»: il colore che si muove in quel “caos primigenio” intuendovi figure umane distorte, motivi grotteschi, forme fantasmatiche impensabili a cui da forma e corpo.
Una stimolante visione animistica, questa, in cui il quadro è paragonabile a un essere vitale e il pittore non sa e non può sapere prima cosa apparirà perché è attraverso il processo inconscio che si invera l’opera. Arte come viaggio alla ricerca di sé stesso, quindi, espressione delle pulsioni più intime e profonde che comportano sofferenza e anche dolore: una pratica artistica più simile a una gravosa seduta di “autoanalisi” che a una tranquilla e gratificante esperienza estetica.
In Dorigatti, però, l’espressività non si limita al gesto libero e incontrollato perché egli rimane sempre un pittore in cui è viva una coscienza critica del proprio fare profondamente influenzata sia dalla conoscenza della storia dell’arte moderna, sia dalla padronanza delle tecniche artistiche, che ne mitigano e indirizzano l’istintività riportandola nell’alveo della rappresentazione figurativa. Attraverso quel flusso continuo di energia fisica e psichica la pittura fa “emergere” dai suoi dipinti un mondo interiore del tutto personale di forme fantastiche, esseri mostruosi, figure inquietanti in cui, alla fine, la storica dicotomia figurazione-astrazione viene felicemente superata.