Alessandro Goio, pur esercitando la professione di architetto, è riuscito a praticare la pittura con costanza e dedizione fin dalla giovane età. Nei suoi primi dipinti astratti che risalgono alla fine degli anni 80 si nota l’influenza di una pittura segnica informale e gestuale che con il tempo si andrà stemperando in un linguaggio più strutturato e personale. A questi suoi due ‘impegni’ si è affiancata anche l’assidua frequentazione del “gioco” degli scacchi – di fatto l’altra sua ‘forma mentis’ – la quale, in un’interrelazione laboriosa ma costruttiva, accompagna da sempre il suo approccio all’astrazione in un ambivalente confronto-scontro tra emotività e razionalità, tra controllo e libertà.
Questa mi sembra la cifra dell’artista: l’innata attrazione verso un’espressività proveniente dal profondo e un “super io” razionale e critico che non può esimersi dall’analisi a priori e a posteriori del proprio operato. Infatti, Alessandro non si è mai distaccato dalle prime esperienze informali riportate progressivamente, però, dentro una rigorosa struttura (soprattutto mentale) che gli ha permesso di coniugare una grande libertà creativa e cromatica con un ordine scandito da fasce verticali. Vere e proprie cascate di colore addensate e miscelate tra di loro con un effetto dinamico che, in un coraggioso contrasto tra gamme cromatiche complementari inusuali, strutturano e allo stesso tempo contestano la regolarità ripetitiva. Una metamorfosi ininterrotta di un ordine generato da un ritmo, che si trasforma in caos (e viceversa) rimandando alla gestualità primigenia; una sovrapposizione-diluizione di colori che determina effetti inaspettati di particolare eleganza simili ad acquerelli orientali o a fotogrammi solarizzati che catturano il divenire di forme astratte dentro un’organizzazione spaziale. Non a caso, è “la coerenza interna” l’obbiettivo esplicito di Goio.