Nell’enclave trentina è possibile trovare degli artisti che sono riusciti a crearsi una propria autonomia espressiva e una precisa riconoscibilità, senza dover ricorrere a stilemi altrui o a furbe scorciatoie. Comportamenti, questi, impensabili per uno come Diego Bridi, come ben si comprende dalla sua risposta (autobiografica) alla domanda su chi sia l’artista: “Una persona sensibile, esageratamente sensibile, che osserva molto, di solito parla poco (questa è una dote da non sottovalutare)“.
Bridi si definisce un “manierista” per le cura maniacale della pennellata e del dettaglio e per il perfezionismo che lo porta ad un lavoro da certosino su ogni tela con una tecnica ad olio quasi “puntinista”, alla ricerca dei giusti equilibri tra forme e colori. Ma, Diego potrebbe anche essere definito un “paesaggista-miniaturista” per le dimensioni sempre contenute delle sue tele e, soprattutto, per il suo stile naive giocoso e delicato in cui case “svergole” addossate l’una all’altra e borghi arroccati su colline e montagne, sono incessantemente decostruiti, reiventati e ricomposti. Una sorta di figurativismo intimista di complicati labirinti, coloratissimi e allegri in cui la mente si perde e che, come visti attraverso un gioco di specchi, si frantumano in un astrattismo morbido e luminoso.
Diego, da vero pittore, è riuscito a inventarsi un suo mondo fantastico in cui raccontare di sè stesso e dei sentimenti più intimi, senza dover ricorrere alle parole. Inoltre, artista appagato perché non mosso né dal desiderio di compiacere né dalla voglia di adeguarsi alle mode, ma spinto solo dal puro piacere di creare sogni e atmosfere che lo rappresentino e trasmettano quella bellezza più vicina all’uomo, troppo spesso dimenticata dall’arte contemporanea.