Non è facile intervistare Paolo De Carli. Non che sia persona riservato – tutt’altro – solo che per un intimo pudore è assolutamente laconico, restìo a parlare di se stesso e del proprio lavoro, convinto com’è, che le opere d’arte non debbano essere spiegate ma debbano parlare da sole.
A questa posizione ideologica e poetica, assolutamente in contrasto con l’attuale società dell’affabulazione, si unisce la tipica ritrosia del trentino che non ama parlare di se stesso o, peggio, mostrare ciò che ha fatto, e questa è una caratteristica che ha penalizzato molti artisti locali i quali, purtroppo, non hanno saputo proporsi (“senza dubbio, pecco di non essere manager di me stesso”, dichiara Paolo), come avrebbero meritato.
Eppure, i suoi grandi dipinti e gli straordinari arazzi tessuti dalla moglie francese Katja (ognuno dei quali richiede un anno di lavoro!), sono opere ricche, profonde, complesse sia dal punto di vista formale, sia dei contenuti che l’artista rappresenta secondo una pratica surrealista che si lega all’inconscio con immagini di un simbolismo di non immediata lettura e interpretazione. Pur rientrando nel filone dell’arte figurativa, dietro la realtà immediata e apparente di ogni sua opera si nasconde un mondo di metafore misteriose da cui emerge un racconto articolato e coerente in cui ricordi, sogno, citazioni e fantasia si intrecciano e fondono indissolubilmente.
Paolo ribadisce “però io non mi spiego”, convinto che chiunque possa avvicinarsi ai suoi lavori con la mente e l’animo liberi e sgombri da pregiudizi intellettuali, lasciandosi guidare solo dalle proprie impressioni ed emozioni. L’arte visiva, come la musica o la poesia, non può essere tutta spiegata, didascalicamente motivata, poiché lo stesso autore – spesso, e per fortuna – non conosce “il perché“ di certe sue scelte. E, di solito, non sa neanche se piaceranno, ma non se ne cura, perché ciò non ha a che fare con il vero interesse di un artista.