Ogni artista possiede caratteristiche sue proprie che lo rendono unico. Chi privilegia il pensiero astratto, chi la forma, chi la poesia, chi la sperimentazione, chi la materia, chi la tecnica, e così via. Alcuni, come Paolo Tait, privilegiano l’arte come modo di vita e il fare arte come unica possibilità di rapportarsi con il mondo.
Paolo possiede il dono innato del disegno e questa sua abilità si trasferisce “naturalmente” sulla carta o sulla tela sotto forma di un alfabeto primitivo, un intrico di figure che rimandano a immagini archetipiche e che esprimono, in modo privo di mediazioni, i suoi stati d’animo profondi e il suo bisogno di raccontarsi. Non è facile definire e inquadrare quasi quarantacinque anni di attività artistica perché i suoi periodi artistici sono stati molti ma, per quanto possa sembrare strano, tutti già dotati della stessa coerenza interna. La maggior parte delle sue opere sono immediatamente riconoscibili per la quasi costante presenza di mondi organico-meccanici rappresentati mediante forti e nette tracce nere che percorrono, come un scrittura “automatica”, lo spazio del quadro secondo logiche geometriche e, allo stesso tempo libere. A volte, grandi campiture di colori fungono da sfondo o da tessuto connettivo ma, la “struttura portante”, è quasi sempre assolta dal segno. A volte, il segno diventa “gesto” grazie alle ampie, veloci pennellate, più istintive e liberatorie, che si trasformano in ombre, animali feroci, mostri neri spaventosi che rimandano alle tensioni e alle inquietudini della sua anima. Altre volte, invece, segni impercettibili fluttuano leggeri in uno spazio infinito suggerito con sfumature dai toni delicatissimi.
La pittura di Tait è una ricerca interessata non tanto al bello, quanto al vero.