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Copertina e apparato grafico di Paolo Tomio

Testo critico

Un fil rouge dall’astrazione futurista alle cromo-forme di Paolo Tomio

Maurizio Scudiero

Scrivevo nel giugno scorso, nella presentazione della mostra Senza confine, che vedeva a confronto quattro artisti russi e quattro italiani (tra i quali, appunto, Paolo Tomio), che egli aveva il “valore aggiunto di quella ‘poetica fantasia’ che è appunto tipica della professione dell’architetto”. In altre parole, la sua formazione, fatta non solo di utopica invenzione ma anche di “rigore costruttivo”, gli permetteva di accostarsi all’arte non (o non solo) con appunto lo slancio utopico della “creatività”, o se si vuole usare un termine desueto della “ispirazione”, ma anche con un attitudine progettuale e fattuale che è propria nelle modalità del suo lavoro. E’ per questo che i suoi quadri non sono “dipinti” ma invece realizzati con gli “strumenti della professione”, vale a dire la stampa da computer, quella digitale in genere.Anche questo è un  segno della modernità, o meglio della contemporaneità: vale a dire realizzare prodotti artistici con qualunque mezzo, non importa quale.Bisogna però intendersi subito. La sua non è una “imitazione”, o meglio una “dissimulazione”, della pittura vera e propria, ma piuttosto una sua “interpretazione” , una sorta di “codice visivo” che si fonda sul superamento delle coordinate eminentemente tecniche con le quali si trova faccia a faccia con il suo lavoro. E’ un “piegare” ai suoi scopi i software di “simulazione” tridimensionale dei volumi architettonici, introducendovi ardite attitudini formali, curvilinee, aerodinamiche.Claudio Cerritelli, che lo ha presentato nella sua personale a Milano tenuta nel 2010, ha singolarmente titolato il suo testo Fluide sonorità, proprio perché vi aveva colto una sorta di “contiguità” sia con l’idea di Goethe che immagina la “fluidità” dell’acqua come un elemento che si avvicina al concetto di “anima” nell’uomo, sia, credo, con  le ricerche su colore e musicalità di  Itten, magari filtrato, in epoca più recente, da Luigi Veronesi. E’ certo un’interpretazione singolare, proprio perché vede in quelle forme plastico-dinamiche di Tomio, come delle “estensioni musicali del colore-luce”, ovvero (come già ben indicava il titolo stesso) “gli aspetti musicali del visibile, le sonorità sinestetiche che s’irradiano dalle forme dinamiche, ben sapendo che tra forme e colore si stabiliscono relazioni poetiche…”.Per parte mia, per mia formazione storica, tendo invece (o inoltre) a relazionare l’opera di Tomio anche in un contesto ulteriore, che è quello formativo dell’artista, specie in ambito geografico dove è emersa con prepotenza la personalità di Depero e con lui del Futurismo.Ma non si tratta solo di un accostamento “territoriale”, proprio perché Depero, a lungo considerato un “minore” (mentre invece oggi ci si rende conto che è il “padre” del Design), od al massimo il “pittore delle marionette”, è invece stato uno dei protagonisti della prima “stagione astratta” italiana tra il 1914 ed il 1916, stagione che anticipò di tre lustri quella universalmente conosciuta come “l’unica” stagione astratta italiana, che ruotava attorno alla galleria “Il Milione” di Milano.Dimenticanza storica dovuta ad una critica ignorante che per anni si è approcciata al Futurismo solo da un punto di vista ideologico, tra l’altro in gran parte errato, e mai si è avventurata nell’approfondire opere e documenti. Ora, tornando a Depero, egli fu, assieme a Balla, protagonista di quel “Futurismo astratto” che a Roma portava avanti una ricerca “analogica” in contrapposizione a quella “analitica” che invece conduceva Boccioni e la sua cerchia a Milano. Se ne conoscono poche opere, oggi, di quel periodo di Depero, perché in gran parte furono acquistate da vari esponenti dell’avanguardia internazionale, da Igor Stravinskij a Leon Bakst, da Leonide Massine a Diaghilev, per fare solo qualche nome. Ma quelle tuttora di “dominio pubblico”, come il grande olio che sta al Museo Depero (Movimento d’uccello del 1916) mostrano una straordinaria “vicinanza” al lavoro di Tomio. E questo perché Depero, a differenza di Balla che lavorava su campiture a “tinte piatte” che assumevano via via un tono decorativo, aveva invece una pulsione plastica assoluta e quindi nelle sue opere, alle campiture a tinte piatte vi aveva aggiunto lo “spessore”, il volume, come se fossero delle sculture: in altre parole la tridimensionalità. Insomma le sue erano delle “forme astratte pitto-plastico-dinamiche” dove parlare di “forma” e “astrazione” ad un  tempo sembra in effetti una contraddizione in termini: un ossimoro. Ma, di fatto, l’astrazione di Balla e Depero non muoveva da una postulazione concettuale ma piuttosto da una sintesi formale che pur sempre originava da un dato oggettivo (o quasi). Nel caso di Depero i dati originanti erano due: il mondo animale e la guerra. Così abbiamo varie “astrazioni animali” e (ancora più interessanti) “rumori di scoppi di granata” dove in sostanza non si dipinge un “dato oggettivo”, ma piuttosto un dato “impalpabile”, come appunto il “rumore”. E questa era una posizione di tutto rispetto, anche nel panorama internazionale.

E dunque, tornando a Tomio, le sue volute plastico-dinamiche le vedo molto vicine al lavoro di Depero, ovviamente con un scarto cromatico e plastico in più dovuto all’uso di una tecnologia che il futurista, allora, certo non poteva disporre. Mi riferisco a quella mancanza di “matericità”, cioè del pigmento pittorico, dovuta al processo di stampa digitale che le rende così rifinite. Depero, infatti, non avrebbe potuto realizzare delle sfumature così perfette e poter usare colori così elettrici. Ma lo “spirito”, e certe “volute”, certe “campiture”, sono sulla stessa lunghezza d’onda. Si vedano, ad esempio, Il tempo dei ricordi del 2011 (a pag. 13) e Geometrie astruse del 2009 (a pag. 16), che sono esemplari di quel fil rouge che più o meno consapevolmente lega la ricerca di Tomio alla poetica futur-astrattista di Depero. Ma, Tomio è andato anche oltre, perché vi ha poi aggiunto quanto la sensibilità pittorica e grafica intervenuta in questi 95 anni che ci separano da quelle opere di Balla e Depero ha via via introdotto. Ad esempio quei “primi piani” su composizioni che si percepisce essere potenzialmente più “vaste” (come in Nel ventre materno del 2001, a pag. 5) proprio a significare quasi un’insistenza topologica, ovvero la ricerca di un “nucleo” dentro all’opera, un topos originante dal quale, cioè, nasce questo slancio dinamico e curvilineo, questa attitudine morfo-genetica di forme che nascono e poi crescono su stesse fluttuando nello spazio, e quindi in questo loro fluttuare e crescere non sono mai uguali a se stesse. Ebbene, in questo contesto, il colore assume a tutti gli effetti una serie di significati traslati, di natura emotiva, spirituale ed anche musicale. E questo ci riporta ancora al Futurismo, a quel grande quadro di Luigi Russolo del 1911 che sta all’Estorick di Londra, titolato semplicemente La musica. Ebbene in quell’opera, le “onde musicali”, che dinamicamente si dipartono a raggiera dal pianoforte, assumono via via i colori di un ampio arcobaleno secondo un codice che è soprattutto basato su una evidente empatia cromatico-musicale. Come dire che certe “corde” sono immanenti, eterne, immutabili. Possiamo solo tentare o cercare di dar loro “nuove forme”, di allargare lo “spettro” delle sensibilità, di “fluidificare” ulteriormente i nostri recettori. E’ quello che gli artisti sono chiamati a “fare”: allargare via via i confini della nostra percezione, oppure accorciare via via il gap che ci separa dal raggiungimento di una “sensibilità ulteriore”.

Taluni pensano che per fare ciò sia necessario trasformare il mondo dell’arte in una serie di pagliacciate, di inutili, tristi e ripetitive, performance, di deliranti installazioni, o, infine, di extra-minimali “assenze”. Forse però è ora che il mondo dell’arte si riappropri della “fisicità” dell’opera d’arte, ma soprattutto della insostituibile “malìa” della sua forza evocativa.

In questo senso, i “plastici colori” di Tomio, sono un contributo prezioso per ritrovare questa perduta dimensione “ottica”, quella “fissità dello sguardo” (perché come ipnotizzati dalla suggestione di forme e colori), che invece cumuli di “detriti” ci avevano fatto distogliere.